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Poteva andarmi peggio Parent Project

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Distrofia di Duchenne e Becker, la nuova campagna “Poteva andarmi peggio” diventa virale

Un messaggio provocatorio e i volti dei giovani pazienti per sensibilizzare sulla patologia e abbattere il pregiudizio

Parent Project Aps, l’associazione di pazienti e genitori di figli con distrofia muscolare di Duchenne e Becker (DMD/BMD), ha lanciato la nuova campagna di comunicazione “Poteva andarmi peggio”, realizzata in collaborazione con KIRweb – l’agenzia di Riccardo Pirrone, famosa per le campagne pubblicitarie delle onoranze funebri Taffo – e già virale sui social media.

Il focus della campagna è quello di sdoganare alcuni luoghi comuni e modi di narrare la disabilità. La distrofia muscolare di Duchenne è una patologia gravissima che incide fortemente sulla vita dei pazienti e loro famiglie ma, anche grazie al lavoro svolto in questi 25 anni di vita dall’associazione, l’aspettativa di vita si è triplicata nel corso di questi anni e la qualità di vita è diventata ogni giorno più solida. Parent Project ha scelto di prendere posizione su tematiche considerate divisive e, attraverso un chiaro e provocatorio paradosso, con molta ironia sono gli stessi pazienti che mostrano un nuovo approccio alla propria disabilità. Tanto è stato fatto nel corso di questi 25 anni, dalla frase “andate a casa, non c’è nulla da fare, ha la Duchenne” che si sentivano dire i genitori, tempo fa, nel momento della diagnosi. La ricerca, per la Duchenne e la Becker, è andata avanti permettendo a tutta la comunità di raggiungere piccoli e grandi traguardi, ma tanto c’è ancora da fare e per questo è fondamentale continuare a sostenerla.

Sono 6 i ragazzi e giovani adulti della comunità di pazienti i protagonisti che danno un volto e una voce al messaggio della campagna. Un messaggio intenzionalmente provocatorio: “Poteva andarmi peggio. Potevo nascere no-vax”. Oppure omofobo, razzista, complottista, negazionista, terrapiattista.Un messaggio di forte impatto, che già ricevuto, nelle prime ore dal lancio della campagna, reazioni molto accese sui social media, in particolare su Facebook, piattaforma sulla quale le visualizzazioni sono salite vertiginosamente – una copertura di oltre 224.000 utenti, circa 57.000 interazioni con il post, circa 7541 reazioni dirette e 7500 commenti. Insieme alle visualizzazioni si moltiplicano, appunto, i commenti sia positivi, sia negativi, che arrivano agli insulti diretti e alle accuse di strumentalizzazione verso i giovani testimonial. Accuse subito smentite dall’Associazione e dai pazienti stessi, pronti a ribadire il loro ruolo attivo nella campagna così come nella vita.

Sono proprio i pazienti a prendere la parola in questa campagna, smontando, attraverso un paradosso e un’ironia graffiante, il preconcetto che nascere con una patologia rappresenti la peggiore delle sfortune possibili; e a trasmettere l’idea di essere persone pronte a giocare un ruolo attivo nel mondo che le circonda e ad esprimere le proprie opinioni, non condizionate da etichette legate alla disabilità. Tra le condivisioni a supporto di Parent Project, quella di Valentina Tomirotti (Pepitosa), giornalista, blogger e influencer attiva anche sui temi legati all’abilismo.

La campagna è realizzata nell’ambito del Progetto “Consolidare”, finanziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ai sensi del D.lgs 3 luglio 2017 n. 117 avviso 2/2020.

“Poteva andarmi peggio”, la campagna social che fa infuriare i no vax: Parent Project risponde

Manuel Tartaglianovembre 17, 2021

Un’incredibile ondata di popolarità ha investito in questi giorni Parent Project, associazione di famiglie di persone con distrofia muscolare di Duchenne e Becker, attiva in Italia da venticinque anni. Per la sua ultima campagna social, ha deciso di puntare ad uno stile non convenzionale, proponendo una serie di fotografie che ritraggono alcuni soci con distrofia, accompagnate da slogan provocatori: “Poteva andarmi peggio, potevo nascere razzista”, “Poteva andarmi peggio, potevo nascere omofobo” o ancora “terrapiattista”, “complottista”, “negazionista” e “no vax”. Ed è proprio quest’ultima categoria che si è sentita punta nel vivo ed ha reagito con una valanga di commenti sprezzanti ed insulti. Insomma, l’obiettivo di ottenere visibilità è stato raggiunto, ma ad un prezzo piuttosto salato.

Raggiungiamo Parent Project per conoscere il loro punto di vista su questa vicenda. Ci risponde Elisa Poletti dell’ufficio stampa dell’associazione.

Con quali intenti è stata realizzata questa campagna di comunicazione?

“Due sono gli obiettivi principali. Da una parte quello di mettere in evidenza l’importanza della ricerca scientifica, che nel caso della distrofia di Duchenne e Becker negli ultimi venticinque anni ha davvero fatto dei passi in avanti perché ha permesso di migliorare la qualità e l’aspettativa di vita dei pazienti. La ricerca per noi è uno degli assi portanti della nostra attività come associazione, da sempre la sosteniamo e raccogliamo fondi per sostenerla.

Il secondo obiettivo è quello di – indirettamente, ma neanche tanto – sdoganare alcuni luoghi comuni nel parlare di disabilità e nel modo in cui le persone con disabilità parlano di se stesse, per cui abbiamo deciso di scegliere un linguaggio comunicativo un po’ diverso dal nostro solito, affidandoci all’agenzia KIRweb, famosa per la pubblicità delle pompe funebri Taffo.

Abbiamo utilizzato un linguaggio un pochino più dirompente e provocatorio non per creare polemica, ma per lanciare un sasso nello stagno dei social media, raggiungendo un pubblico più ampio”.

In che modo è stata presa la decisione di lanciare la campagna “Poteva andarmi peggio”?

“Attraverso un processo democratico che ha coinvolto tutti gli organi rappresentativi dell’associazione. C’è stata quindi una lunga valutazione, una consultazione sia dei pazienti che dei genitori, dato che l’associazione è governata da loro.

Ci sono state sottoposte diverse alternative e questa proposta è stata molto discussa internamente perché chiaramente abbiamo a che fare con un messaggio molto forte, con una provocazione legata a temi che al momento sono divisivi nella nostra società, quindi abbiamo valutato molto i pro e i contro di questa opzione. Alla fine è stata scelta questa modalità proprio per provare a fare un pochino più di rumore, mantenendoci nell’ambito di un linguaggio di narrazione della disabilità positiva; non partendo dal compatimento, dal pietismo, dal dolore come spesso accade”.

Le reazioni di disapprovazione sono state molte e piuttosto accese. Eravate preparati ad un’accoglienza del genere?

“È la prima volta che lanciamo un messaggio così di rottura, per cui avevamo messo in conto sicuramente una buona ondata di reazioni negative.

Per capire se percorrere o meno questa strada, ci siamo lungamente confrontati e alla fine gli organi che rappresentano i pazienti e i genitori hanno deciso di procedere proprio per giocare su questo elemento di provocazione e cavalcare l’onda di questa prima reazione, nell’ottica di arrivare poi ad un dibattito su questi temi al di là del sasso lanciato nello stagno di cui sopra”.

Delle varie categorie citate nella campagna, praticamente l’unica che ha fatto sentire la sua voce è stata quella dei cosiddetti “no vax”, che hanno reagito numerosi e in maniera molte volte scomposta. Come ve lo spiegate?

“Il nostro intento non era quello di entrare nel merito della polemica vax/no vax. Diciamo che il filo conduttore di questi soggetti riguarda la ricerca e la scienza, per cui tutto si gioca su un forte paradosso, su una auto ironia di fondo dei ragazzi che hanno fatto da testimonial. Parent Project da venticinque anni sostiene la ricerca, per cui sicuramente tra le due parti siamo più a favore della scienza, però l’intento non era quello tanto di fare campagna vaccinale”.

Questa è invece una delle accuse che vi viene fatta.

“Esatto, ma si tratta di fraintendimenti. Questa campagna si inserisce in un progetto molto più ampio, che viene finanziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Noi da diversi anni realizziamo progetti di ampia portata che coinvolgono la comunità con molteplici azioni indirizzate ai pazienti alle famiglie, iniziative di formazione eccetera.

Questa campagna di comunicazione non ci è stata imposta. Qui nessuno sta seguendo nessuna agenda, però capisco che magari per un pubblico ampio vedere determinati messaggi ha subito fatto scattare collegamenti con altre realtà”.

Tra i detrattori della campagna, molti sostengono che i ragazzi che si sono prestati come testimonial siano stati strumentalizzati. Come rispondete a queste accuse?

“È assolutamente falso. Sono accuse di stampo abilista, che danno per scontato che i testimonial siano persone  incapaci di intendere e di volere o comunque non in grado di esprimere una propria opinione anche scomoda, anche che non può piacere a tutti. I nostri testimonial sono tutti ragazzi attivi nell’associazione o che fanno comunque parte di famiglie socie. Sono stati tutti coinvolti nella fase precedente di valutazione della campagna e hanno potuto decidere liberamente, soppesare i pro e i contro e addirittura alcuni di loro hanno anche scelto a quale claim desideravano essere abbinati. Quindi noi possiamo tranquillamente smentire il fatto che queste persone siano state strumentalizzate con questa finalità”.

A conti fatti, ci avete guadagnato in visibilità o perso in approvazione?

“Bella domanda. La risposta la sapremo tra qualche mese in quanto siamo solo all’inizio e intendiamo creare sempre più momenti di confronto. Sicuramente queste tematiche sono emerse attraverso i commenti negativi, pensiamo alle accuse di strumentalizzazione dei nostri pazienti; sono per noi argomenti molto importanti da sviscerare perché hanno dietro una cultura e una visione della disabilità che noi vorremmo contribuire a smontare, contribuendo nel nostro piccolo a portare avanti una trasformazione”.

Se poteste tornare indietro, rifareste tutto o cambiereste qualcosa?

“È una valutazione che faranno a tempo debito gli organi decisionali”.

Cosa vorreste dire a chi sta sentendo parlare per la prima volta di Parent Project ma non vi conosce?

“Vi invitiamo a venirci a trovare per conoscerci meglio, vedere come lavoriamo e le tantissime attività che portiamo avanti tutto l’anno da tanti anni. La nostra attività non è nata la settimana scorsa con questa campagna così discussa, ma è cominciata venticinque anni fa. Venite a scoprire quello che facciamo con le famiglie, con il Centro Ascolto, tutte le attività di raccolta fondi che coinvolgono la nostra comunità e soprattutto a scoprire tutto quello che facciamo a livello di divulgazione scientifica e di sostegno alla ricerca su queste patologie, che ancora non hanno una cura. Questo è il cuore della nostra missione”.

(Manuel Tartagli

La campagna ironica dei disabili: “Poteva andarmi peggio, potevo nascere omofobo o No-Vax”

20 Novembre 2021 alle 10:32

La campagna ironica dei disabili: "Poteva andarmi peggio, potevo nascere omofobo o No-Vax"

Una pubblicità nata per non suscitare pietismo e per denunciare ogni fobia di genere. E’ l’idea di Parent Project associazione di pazienti affetti da distrofia muscolare di Duchenne. Protagonisti sono i ragazzi disabili in carrozzina. Il leitmotiv? “Poteva andarmi peggio, potevo nascere No-Vax, complottista o razzista”.

“La campagna si pone un doppio obiettivo: quello di sensibilizzare sul ruolo cruciale della ricerca sulla distrofia muscolare di Duchenne e Becker e quello di sdoganare – attraverso un messaggio spiazzante, di rottura, basato sull’autoironia e il paradosso – un approccio graffiante, non pietistico alla narrazione della disabilità”, dice Elena Poletti, responsabile della comunicazione di Parent Project.

A che target è rivolta?

Ci rivolgiamo a un target molto ampio, ma in particolare a chi crede nella ricerca scientifica e nella competenza. Nei nostri 25 anni di attività la ricerca ha davvero iniziato a cambiare lo scenario della patologia (allungamento dell’aspettativa di vita e miglioramento della qualità di vita) e va sostenuta perché possa portare risultati sempre più significativi. Abbiamo anche deciso di prendere posizione su alcuni temi oggi considerati divisivi, quindi ci rivolgiamo anche a chi non considera l’omofobia o il razzismo delle opinioni e chiediamo a tutte queste persone di visitare il nostro sito e di supportarci.

Come mai avete scelto per la campagna un metodo comunicativo differente ma allo stesso tempo rischioso?

“Volevamo sperimentare un approccio meno classico rispetto alle nostre campagne precedenti. Siamo sempre stati attenti a veicolare un discorso positivo e non pietistico delle persone con disabilità, ma questa volta abbiamo optato per un approccio più dirompente per provocare, far riflettere e portare un nuovo pubblico a conoscere la patologia e a sostenere con ancora più forza la ricerca. Dopo un’ampia consultazione interna all’associazione, genitori e ragazzi si sono pronunciati a favore di questo esperimento, pur consapevoli del rischio di attacchi. La scelta di coinvolgere come testimonial sei ragazzi e giovani adulti che convivono con la DMD – che hanno prestato il loro volto in piena consapevolezza – è strettamente legata alla nostra visione di un’associazione in cui i pazienti siano sempre più il motore di tutte le scelte e le iniziative”.

Quali media avete utilizzato per questa campagna? Solo i social oppure anche altri?

“La campagna è nata e continuerà ad essere animata principalmente sui social media, ma il nostro intento è anche quello di uscire dai social e poter trovare degli spazi di approfondimento e di visibilità sulle nostre tematiche sui media”.

Che tipo di reazione vi aspettavate?

“Le reazioni alla campagna stanno evidenziando in modo molto chiaro che in Italia ci sono ancora resistenze rispetto ad una narrazione della disabilità che esca dal registro della pietà, della disgrazia; una certa fetta di pubblico non è pronta ad accettare che le persone disabili abbiano una voce, che può risultare anche scomoda e questo è un punto su cui culturalmente c’è moltissimo da fare”.

E i feedback che avete ricevuto? Quanti sono pro e quanti contro?

“Non è semplice quantificare; al momento abbiamo raggiunto oltre 400.000 persone solo su Facebook, e delle circa 11.000 reazioni 8.000 sono nettamente positive. Nei commenti al momento fanno molto ‘rumorè gli attacchi, ma iniziano a moltiplicarsi le condivisioni di chi ha apprezzato il messaggio. C’è anche chi accusa l’associazione di aver strumentalizzato i testimonial e di discriminare a nostra volta altre categorie di persone. Poi ci sono persone che semplicemente non hanno apprezzato la modalità comunicativa. Stiamo ricevendo, al contempo, sempre più feedback positivi di persone e realtà che si sentono in sintonia con questo modo di approcciare la rappresentazione di una patologia grave. In particolare, molti giovani e persone con disabilità si rispecchiano in questo messaggio e hanno colto l’essenza di quanto volevamo trasmettere”.

Il commento

Conosco molto bene l’associazione e alcuni dei ragazzi che hanno partecipato alla campagna e sono sicuro che non ci sia stata alcuna strumentalizzazione delle persone. Anche l’autoironia sulla disabilità può essere un modo per far conoscere meglio le nostre realtà. A mio avviso, però, in questo caso non si è fatta solo ironia sulla disabilità, evitando giustamente un approccio pietistico, ma sono state colpite in modo molto forte alcune categorie di persone che hanno idee diverse, pur certamente non condivisibili. Io mi trovo contrario alla posizione dei No-Vax e mi sento di condannare qualsiasi forma di discriminazione, ma non vedo quale sia il nesso tra la forza e la capacità di ironizzare sulla disabilità e la condanna di alcuni comportamenti. Sicuramente condannare ogni forma di discriminazione è un valore universale, ma il messaggio così veicolato rischia di essere offensivo o perlomeno confuso. Il target di questa campagna, mi è stato detto, sono coloro che credono nella ricerca e nella competenza dell’associazione. Ma, a mio parere, da questa campagna non si evince con chiarezza l’importanza della ricerca e della competenza. Il fatto che l’associazione voglia difendere determinati principi e sostenere l’importanza del vaccino è una cosa legittima, ma se l’obiettivo era far conoscere la distrofia, dare visibilità alla malattia e raccogliere fondi per la ricerca, ho paura che si siano mescolati discorsi molto diversi, sovrapponendo i temi della salute e della disabilità ad alcune scelte etiche ed ideologiche.

Mattia Abbate, l’autore di questa rubrica, è affetto da distrofia muscolare di Duchenne. “Questo spazio – dice – è nato per aiutare chi convive con difficoltà di vario genere ad affrontarle e offre alle persone sane un punto di vista diverso sulla realtà che le circonda”. Segnalate un problema o raccontate una storia positiva di disabilità all’indirizzo e-mail postacelere.mi@repubblica.it